La Fashion Revolution, campagna internazionale per i diritti dei lavoratori dell’abbigliamento, a fine aprile ha mobilitato la rete e i social network: who made your clothes? – chi ha fatto i tuoi vestiti? era lo slogan e hashtag ricorrente, insieme alle foto di produttori che “ci hanno messo la faccia” per dire al mondo: #Imadeyourclothes.
Le aziende hanno anche cominciato a rispondere alle domande dei consumatori.
Alcuni pensieri che mi girano in testa da tempo su questi temi. Mi ritrovo molto nell’analisi che fa Justine de Le Funkymamas:
È un catena. È tutto collegato: il nostro stipendio e quello dell’operaio dall’altra parte del mondo che cuce vestiti low-cost.
Viviamo in una corsa al ribasso costante ma non vediamo che mentre compriamo cose per pochi euro, di qualità sempre più scadente, ci perdiamo tutti, noi compresi.
Siamo concentrati sul pensiero di pagare sempre meno vestiti e accessori, perché guadagniamo sempre meno.
O perché ci hanno abituato a comprare sempre più spesso?
Se spendiamo sempre peggio avremo sempre bisogno di qualcosa di nuovo. Non saremo mai soddisfatti.
Avete presente quella sensazione per cui l’armadio è pieno di roba ma sembra di non avere mai niente da mettersi?
Comprare poco, comprare bene, ripagando in modo equo il produttore potrebbe essere un modo per generare più benessere per tutti. Tanto più che il nostro paese poi è ricchissimo di brand indipendenti, produzioni di qualità e spesso ecologiche.
E’ un tema che mi tocca molto da vicino, essendo socia di un brand indipendente e occupandomi di comunicazione.
Soprattutto grazie a questo lavoro ho avuto occasione di conoscere colleghi e realtà creative italiane che lavorano con grande attenzione alla qualità, spesso anche con criteri ecologici rigorosi.
Per Bologna esiste anche una guida alle produzioni creative indipendenti (non solo abbigliamento).
Immaginatevi cosa c’è nel resto d’Italia.
Non riesco a smettere di pensare che se scegliessimo meglio i nostri acquisti potremmo veramente vivere meglio, lavorare serenamente in attività che ci gratificano, in questo paese pieno di creatività, di gusto, di cose belle.
Ovviamente si tratta di un percorso, di analizzare le nostre priorità, facendo comunque i conti con la disponibilità economica, ma non ci credo quando ci raccontano che non abbiamo scelta.
Abbiamo sempre una scelta.
Che spendiamo 10 euro o 100 sosteniamo comunque una economia o un’altra.
Diamo i nostri soldi a chi ha prodotto materialmente un bene o a strutture gigantesche che investono più su comunicazione, immagine, distribuzione, logistica, perché la produzione costa pochissimo: a pagarla cara sono i lavoratori e l’ambiente.
Penso che riuscissimo a fare nella moda (e magari anche per l’arredamento) quello che in parte è avvenuto per il cibo sarebbe già un grande passo. Certo, anche sul cibo c’è ancora tantissimo da fare, ma ormai una certa sensibilità per qualità, ecologia e prezzo equo si è diffusa (tanto da essere anche risucchiata dal sistema e riproposta a prezzi scellerati nei centri stilosissimi delle nostre città).
In Italia siamo comunque predisposti a spendere per mangiare bene, ma soprattutto con il cibo ci sono due vantaggi evidenti: mangiamo tutti i giorni, più volte al giorno, possiamo gratificarci anche con pochi euro, sia in termini di gusto, che di salute, che sia per scelte etiche o perché seguiamo le mode.
Penso che abbiamo un limite mentale, una sorta di imperativo consumista: ci concediamo di non spendere “troppo” (che il limite sia 5, 10, 20 o 50 euro dipende dalle nostre tasche), ma alla fine molti sono portati a spendere spesso.
Solo togliendo le uscite dei fine settimana, quanti jeans ecologici “cari” si potrebbero comprare?
Ma appunto è un percorso, e le priorità sono personali, nessuna strada è valida per tutti. Si comincia un passo alla volta. Come per il cibo possiamo scegliere vie collettive e individuali per tenere i prezzi bassi, cooperare con produttori locali, acquistare materie prime tramite gruppi di acquisto, e soprattutto rieducarci a cucinare, autoprodurre, mangiare, oppure restare nel fast food (ora disponibile anche in green, a prezzi anch’essi di tendenza).
L’ultima riflessione che da un po’ mi ronza per la testa è sulla distanza che spesso separa il “bello” e “l’ecologico ed etico”.
Senza dubbio ho frequentato più i mondi dell’economia solidale e alternativa che quello della moda (e anche lì “bello” è una questione aperta…) e una cosa è evidente: spesso quando l’accento è marcato su ecologia e etica l’estetica va a farsi benedire.
Nemmeno. Vige l’estetica del saio. Del sacco di patate. Della semplicità volontaria ostentata.
Citando un’amica, spesso in questi ambiti si vede solo lo “stile elfi”.
Detto con tutto l’amore per le magiche creature del bosco e/o per i riabitanti rurali dell’Appennino alla Sambuca Pistoiese.
Si veste molto meglio l’amica fotografa freelance comprando alla Caritas che non certi presunti fricchettoni con i Birkestock sempre nuovi fiammanti.
Nuovi. Si fa per dire.
Avendo frequentato contesti molto diversi tra loro, delle autoproduzioni creative, del gioiello contemporaneo o fashion e dell’economia alternativa, vedo spesso ancora molto distanza tra quelli che potrebbero essere fattori chiave comune per un vivere più etico, ecologico e, perché no, estetico, generando maggiore benessere diffuso.
Spesso chi cerca cose belle – e, certo, chi può permettersi di pagarsele, con una certa frequenza – non è interessato a come sono prodotte. Spesso chi ama queste cose perché ne apprezza il loro valore etico e/o ecologico non può permettersele.
Ma credo anche che nel mondo alternativo la “moda del saio” sia anche un criterio estetico, non solo economico.
Perché come diceva il caro vecchio Georg Simmel anche chi non segue la moda, in realtà ne conosce e segue i meccanismi.
Vestirsi male di certo costa poco, quindi è anche una moda utile, in tempi di crisi e per chi fa scelte di vita alternative. Ma la ragione della “moda povera” è anche che vestirsi con gusto, qualità, stile, non fa parte delle caratteristiche del “consumatore critico” o della “consumatrice solidale”. E questo mi fa arrabbiare! Perché essere fighi/e non dev’essere rivoluzionario?
Forse faremo dei passi avanti quando lo “stile ecologista/movimentista” si libererà della ciabatta con calzino, pile Quechua sopra la t-shirt di cotone bio Made in jail (tipo “da vicino nessuno è normale”).
Allora chi ha già capito che coi propri soldi può dare un’impulso a un mondo più giusto potrebbe essere più incisivo/a, diventare un “influencer”, un figo da imitare, invece che un “estremista” “dei centri sociali”.
Anzi, potrebbe essere quasi una strategia politica! Essere fighi per trascinare più parte della società dalla nostra parte: quella giusta, ovviamente! 😉 Neanche Slow Food c’è ancora arrivato, col suo cibo buono, pulito e giusto. E bello no?
Non penso ovviamente a chi ha fatto scelte di vita di riduzione, di autoproduzione, di avere più tempo e meno soldi. A quando magari dopo aver lavorato a casa o nell’orto si va in posta coi pantaloni bucati (tipo la sottoscritta).
Ma ci sono occasioni e occasioni, e possiamo vestirci in modi diversi.
Non penso al quotidiano, sono la prima a dare la priorità alla comodità, penso a quando i vestiti diventano una divisa, un riconoscimento identitario, penso a come facciamo i nostri acquisti, a cosa influisce sui nostri comportamenti, cosa offre il mercato, anche quello alternativo.
Mi ha un po’ stancato lo stile “voluntary simplicity” o “politically correct”, che qui abbiamo schematizzato in birkenstock+made in jail+quechua. Con deroghe hippie alla sciarpina in seta grezza a tinture naturali, politiche (kefia), o punk, cioè anfibi (che guarda caso sono anche tornati di moda), e veste così 24/7.
Potremmo sostenere molte più persone e vite “alternative” che non coltivano la terra ma producono tessuti, vestiti, accessori, e costruire un altro mondo possibile un po’ più spazioso.
Non siamo arrivati a concederci ancora per l’abbigliamento quello che ci concediamo per mangiare bene, sostenendo produttori biologici e contadini. E l’arredamento? Non parliamo dell’arredamento!
Chiaramente i prezzi sono diversi, dunque il cammino è più lungo.
Ma ho ancora l’impressione che l’altro mondo possibile debba vestire francescano, decathlon o elfico. Perché non dev’essere anche bello oltre che ecologico e giusto? Originale? Personale?
Comunque qualcosa si muove. Per fortuna esistono gli acquisti online, noi ad esempio abbiamo scelto Etsy, una community creativa dove cercando bene si trovano tante realtà interessanti.
Anche gli eventi dell’handmade – e ora ce ne sono diversi molto interessanti – raramente scelgono ecologia ed etica come criteri principali, ma al loro interno lo fanno moltissimi espositori, bisogna solo chiedere, indagare.
Noi ormai ne facciamo pochi, lavorando principalmente su altri canali, ma il 13 maggio saremo alla Fierucola delle Trame Sane, a Vignola (MO), dove sicuramente gli espositori sono scelti con cura per etica ed estetica.

La Fierucola delle Trame Sane 2016
P.S. chi è senza peccato scagli la prima pietra! Io li ho tutti, alcuni in duplice copia: Birkenstock, giacca Quechua, Dr. Martins, del 1998. Magliette madeinjail: due. Che poi sono belle! Era per fare un esempio di “outfit” completo dell’eco-radical-saio-freak. Dipende anche se il contesto è un’assemblea al centro sociale, zappare l’orto o il matrimonio di vostra cugina.
Comunque non ho “da vicino nessuno è normale”, ho “regole 0” 🙂 . Rossa. Ma ormai la uso da lavoro o per andare a correre. Da pigiama no, che il rosso agita.