La settimana scorsa era la settimana della fashion revolution, un’iniziativa internazionale lanciata in seguito a un disastroso incidente accaduto il 24 Aprile 2013 in una fabbrica in Bangladesh, costato più di mille vite umane, solo per rifornire l’Occidente di vestiti a basso costo.
Lo slogan “who made my clothes”, chi ha fatto i miei vestiti? è il fulcro di una campagna di informazione e azione sui social network per superare il muro che nasconde le ingiustizie della “fast fashion”, la moda lampo, e per promuove i brand che scelgono sistemi produttivi etici ed ecologici.
Pubblichiamo un interessante approfondimento sul tema del tessile etico, che racconta dell’incidente in dettaglio, ma soprattutto offre un quadro sul sistema produttivo, le filiere del tessile e della moda e propone semplici soluzioni da applicare nel nostro quotidiano.
La filiera del tessile: sai cosa ti metti addosso?
di Eleonora Mariotti, già pubblicato su Attenti alle trame. Per un tessile equo e solidale, n. 241 di Pollicino Gnius, Mag6, Reggio Emilia, Novembre 2015
Se entrate in uno dei tanti punti vendita di un marchio low cost per dare un’occhiata e vedete un capo che vi piace è molto probabile che la settimana dopo non lo troviate più…puff! È sparito! Non è necessariamente stato acquistato, è interesse di chi vende portare il compratore a dire: “Se non lo compro oggi probabilmente non lo troverò più in vendita” e così lo si compra. È il fast fashion, la moda usa e getta che si consuma in fretta e costa così poco che quasi tutti possono permettersela. I marchi low cost contemporanei riproducono i trend di stagione visti sulle passerelle delle sfilate di moda più importanti per venderli a prezzi accessibili. Basti pensare che le collezioni di un brand low cost in un anno possono arrivare ad essere 10 o 12: fast! Negli ultimi dieci anni qualcosa è cambiato nel commercio internazionale: si è registrata una forte crescita della fast fashion a causa della fine, a partire dal 1° gennaio 2005, dell’Accordo Multifibre, che fu introdotto nel 1974. Quest’ultimo regolava il commercio dei prodotti tessili in tutto il mondo, imponendo restrizioni alle quantità che i Paesi in via di sviluppo potevano esportare verso i Paesi sviluppati; in tal modo si consentiva ai secondi di prepararsi alla gestione delle importazioni provenienti dai primi, che nel tessile godono, com’è noto, di un vantaggio concorrenziale determinato dal basso costo del lavoro. Il 1º gennaio 2005 ha segnato la fine dell’Accordo e la fine di tutte le restrizioni quantitative al commercio di tessile ed abbigliamento, provocando una forte crescita delle esportazioni dalla Cina, il che equivale a dire: prezzi bassi per il consumatore, ma altissimi in termini di impatto ambientale e sociale.
Le trame aziendali e il fatturato
I grandi marchi della moda, anche sportiva, non producono più in Italia; hanno delocalizzato quasi tutta la produzione all’estero. Le piantagioni di cotone, la tessitura dei filati, la lavorazione dei pellami, la colorazione, il taglio, la cucitura: tutto è realizzato all’estero, dall’altra parte del mondo, ma l’altra faccia della medaglia mostra migliaia di imprese che qui in Italia hanno chiuso, sotto i colpi dell’imbattibile concorrenza internazionale. La grande ditta d’abbigliamento, i grandi marchi della moda generalmente si avvalgono di intermediari specializzati del settore (in genere con base ad Hong Kong), che sono in grado di trovare la fabbrica che offre il costo più basso per produrre un determinato capo o calzatura. E non importa dove essa sia e in che condizioni lavorino le persone al suo interno. I margini di guadagno devono essere altissimi perché sul prezzo finale del capo, la remunerazione di chi lo ha prodotto effettivamente, di chi lo ha lavorato manualmente incide in misura minima, ovvero al massimo il 3% sui costi totali; mentre il 60-65% è rappresentato da costi e profitti del distributore, ed il 18% da costi e profitti del marchio. Quindi meno si spende per la produzione di un capo, più denaro resta da investire in promozione pubblicitaria, nei testimonial o per altre voci che fanno parte del processo che porta i capi d’abbigliamento, con o senza marchio famoso, nelle vetrine delle nostre città.
Parliamo dell’abbigliamento in genere, dall’Alta Moda alla grande distribuzione: le grandi o grandissime società hanno tutte lo stesso sistema di produzione con un giro d’affari mastodontico; per fare un esempio dell’ordine di grandezza cui ci riferiamo, il fatturato del 2009 di uno dei leader mondiali della GDO (Grande Distribuzione Organizzata), Wal-Mart è pari al PIL (Prodotto Interno Lordo) della Norvegia. È quindi possibile che le imprese di moda di grandi dimensioni non sappiano esattamente dove siano stati prodotti i loro capi perché, se si rivolgono ai grandi intermediari, saranno questi ultimi a dare l’ordine di produzione o commessa alla fabbrica che offre il prezzo più basso, ovunque essa sia collocata nel mondo. A volte ci sono persino ulteriori passaggi, da grandi a medi e poi piccoli intermediari; ciò non toglie che comunque la responsabilità morale del processo produttivo rimane in capo all’impresa committente.
Chi produce ciò che indossiamo e come
Tra i Paesi in cui si produce di più nel campo tessile troviamo: Sri Lanka, Pakistan, India, Cina, Thailandia, Filippine, Turchia. Qui le condizioni lavorative sono ben lontane dagli standard europei, i sindacati sono inesistenti, i costi della manodopera sono bassissimi, l’età delle lavoratrici e dei lavoratori è spesso inferiore ai 15 anni, i turni di lavoro di 10-12 ore al giorno, a volte anche 6 giorni su 7, per un compenso che difficilmente arriva a 30-40 dollari al mese. Non capita di rado che avvengano degli incendi in queste fabbriche a causa delle scarse condizioni di sicurezza, rappresentate da palazzi pluripiano contenenti tonnellate di macchinari ai quali lavorano migliaia di persone. Sono luoghi altamente insicuri in cui si lavora e purtroppo capita che, per garantire il raggiungimento degli obiettivi produttivi, le porte di sicurezza vengano bloccate e le finestre abbiano sbarre: in queste condizioni anche un piccolo incendio può trasformarsi in una tragedia. È accaduto in Bangladesh a Dacca nel 2013, il crollo della fabbrica multipiano Rana Plaza in cui morirono 1129 persone e 2500 circa rimasero ferite; i sopravvissuti hanno raccontato che nel momento in cui sono state notate delle crepe sull’edificio, i piani inferiori sono stati chiusi, mentre il divieto di utilizzare l’edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili, ai lavoratori fu ordinato di tornare a lavorare il giorno successivo, giorno in cui l’edificio ha ceduto collassando strutturalmente. E accaduto e purtroppo continua ad accadere.
Questo uso della forza lavoro è di una dannosità insostenibile ed eticamente inaccettabile. A tutto ciò va aggiunto che la maggioranza delle piantagioni di cotone sono condotte in regime di agricoltura convenzionale e l’uso di pesticidi è massiccio: si stima che il 25% degli antiparassitari di origine sintetica, venduti in tutto il mondo, venga usato per questo tipo di coltivazioni; chi vi lavora, dall’altra parte del Pianeta, spesso non indossa mascherine o altri sistemi di protezione ed è quindi soggetto ad ammalarsi. Sin da piccoli pensavamo al cotone come ad un prodotto sano e morbido sulla pelle, ma poi apprendiamo da una stima dell’UNICEF che il 70% viene raccolto a mano con il lavoro minorile forzato: ogni bambino raccoglie 1,5 kg di fiocchi di cotone al giorno, ricevendo in cambio il corrispettivo di 10 centesimi di euro. Le autorità dei Paesi interessati da queste inaccettabili pratiche in parte negano il ricorso al lavoro minorile, e in parte spiegano che si tratta di lavoro volontario di “bambini animati da spirito patriottico, pronti a dare il proprio contributo per il bene del proprio Paese”.
Il costo reale dei prodotti tessili
Le tinture, i coloranti e i fissanti, che vengono usati per modificare il colore originario dei tessuti, contengono spesso sostanze proibite da tempo perché tossiche, ma che ancora vengono usate per tingere i capi che noi indossiamo, aumentando i casi di dermatiti irritative e da contatto in coloro che li indossano. Solo i più attenti ed informati tra questi ultimi riescono a ricondurre i problemi riscontrati agli indumenti indossati. Dopo la tintura infatti segue un’operazione chiamata finissaggio, che è una delle parti più inquinanti del processo tessile: si usa il laser, la CO2 o il ghiaccio secco, che servono a “nobilitare” il tessuto e a conferirgli effetti differenti a seconda delle varie mode. L’Associazione Tessile e Salute ha eseguito, nel corso del 2009 per conto del Ministero della Salute, un’indagine sui tessuti circolanti sull’intero territorio nazionale da cui è emerso che il 15% degli articoli sono sprovvisti di etichetta di composizione e il 34% indica dati sbagliati. Inoltre i test di laboratorio effettuati hanno evidenziato che il 29% dei campioni presenta un pH fuori dai limiti e la presenza di sostanze pericolose: ammine cancerogene (4%), coloranti allergenici (4%), metalli pesanti (6%) e formaldeide (4%). I problemi nascono non dalle fibre ma da ciò che viene utilizzato per colorarle, sbiancarle, ammorbidirle e trattarle cioè dalle sostanze chimiche che vengono impegnate per questi trattamenti sul tessuto.
L’origine delle patologie quindi è spesso legata alla presenza sui capi di sostanze da tempo vietate in Italia ed in Europa ma i prodotti di importazione risultano talvolta trattati ugualmente con sostanze chimiche non a norma.
Anche la tecnica denominata sandblasting o sabbiatura, quella che permette di schiarire il tessuto dei jeans – che viene usata dalla maggior parte dei marchi internazionali del mondo della moda – è insostenibile e dannosissima perché eseguita dai lavoratori senza dispositivi di sicurezza individuale. La sabbiatura è un processo abrasivo che alliscia le superfici, attraverso la sabbia sparata ad alta pressione; la lavorazione dovrebbe essere effettuata soltanto con adeguate protezioni e preferibilmente attraverso macchinari a norma. Invece spesso viene affidata alle mani nude di giovani abitanti dei Paesi del Sud-est asiatico come il Bangladesh, i quali, senza alcuna protezione, si servono di pistole manuali ad aria compressa che sparano sabbia contenente fino all’ 80% di silice, assicurandosi così una morte prematura. Infatti, la silice contenuta nella sabbia è altamente tossica e, se inalata, causa una patologia inguaribile e mortale: la silicosi, una malattia un tempo strettamente legata al lavoro in miniera e ai lavoratori dell’industria pesante che compromette la funzionalità dei polmoni, dando luogo a gravi difficoltà respiratorie che alla lunga portano alla morte. A differenza dei minatori, nei quali la malattia tendeva a cronicizzarsi nel tempo, gli operai addetti alla sabbiatura dei jeans contraggono la malattia nella sua forma acuta, e la sviluppano in tempi brevi, quasi fulminanti. Questo perché ai lavoratori non è fornita l’attrezzatura basilare necessaria a proteggersi (tute, guanti, mascherine) e a volte questi lavorano perfino scalzi e per di più costretti a dormire nello stesso luogo di lavoro a contatto diretto con le polveri. Certo, esistono altre tecniche per decolorare il denim, come il lavaggio con la pietra, la spazzolatura, la carta vetrata, ma, oltre ad essere meno precise (la sabbiatura permette di sparare la sabbia appunto direttamente in porzioni di tessuto localizzate), risultano anche notevolmente più costose e quindi difficilimente vengono prese in considerazione dalle aziende.
Etica nei nostri armadi
L’idea che i vestiti debbano essere così economici e disponibili in fretta è uno dei problemi maggiori. La moda economica è creata con materiali economici, che sono i più dannosi per l’ambiente e per gli esseri umani perché la loro produzione si avvale di una manodopera a basso costo e, come già detto, priva di tutele minime in termini di sicurezza. Queste produzioni costano molto all’ambiente e agli esseri umani in termini di salute; il loro risultato è rappresentato da abiti, spesso di scarso valore, che vengono buttati via da chi li ha acquistati dopo averli indossati solo un paio di volte, come se niente fosse. Si è soliti comprare abiti all’ultimo grido a prezzi bassissimi, ma non tutti capiscono perché dovremmo invece pagarli di più. Quindi il primo passo è educare i consumatori, facendo loro comprendere cosa c’è dietro ad un vestito, le implicazioni etiche che si nascondono dietro all’acquisto di una maglia da 5 euro… Si deve comprendere che una maglietta da 30 euro, prodotta in maniera etica, vale tutti quei soldi perché è un prezzo equo, mentre un prezzo troppo basso nasconde dei costi occulti e degli sfruttamenti inaccettabili.
Da alcuni anni, per fortuna, si sta formando una nuova coscienza tra i consumatori e vediamo non di rado che la società civile si organizza per difendere e promuovere i diritti del lavoro perché oggi i consumatori rappresentano una categoria forte in quanto numerosa e le buone pratiche del consumo critico si stanno diffondendo al punto che in Italia i GAS (gruppi d’acquisto solidale), composti da consumatori critici e consapevoli organizzati, sono circa 1500 e possono indirizzare verso le scelta etiche e realmente sostenibile per tutte e tutti.
Per conciliare etica ed estetica nel nostro guardaroba si possono seguire alcune buone pratiche come lavare gli abiti a temperature basse e asciugarli all’aria, evitando loro lo stress termico eccessivo dell’asciugatrice; riciclare il più possibile quelli che abbiamo e/o organizzare uno swap-party in cui è possibile scambiare i vestiti dismessi con quelli di amici e amiche. Queste sono solo poche delle mille idee che possiamo attuare per essere ecosostenibili anche nei confronti di un campo, quello tessile, che dopo l’alimentazione, ci induce a spendere i nostri soldi più di frequente.
I mercatini e le fiere tematiche sul tessile etico
• Diritto e rovescio, oltre l’etichetta, Crema
fiera dell’abbigliamento etico sostenibile che si svolge 2 volte all’anno, in ottobre e a maggio, a Crema,
organizzato da “GAS sul Serio” di Crema.
Info: gruppotessile (@) gassulserio.it
• La Fierucola delle trame sane, Vignola (MO)
incontro con la filiera italiana del tessile etico e sostenibile, mercatino di moda etica che si svolge il 2° sabato di maggio (prossimamente anche in autunno), organizzato dal GAS vi cambia – Vignola con la collaborazione del DES Modena e di altre associazioni vignolesi.
Info: www.gasvicambia.it gas.vicambia (at) yahoo.it
• Per filo e per sogno, fiera del tessile biologico ecologico (BG)
una fiera itinerante nella provincia di Bergamo che si svolge 2 volte all’anno, in autunno e primavera; è organizzata dal GAS Ponte S. Pietro, AltrogasFontana, GAS Mozzo.
Info: www.cittadinanzasostenibile.it citeruzzi (at) gmail.com
• I gas si vestono dalla testa ai piedi, Fagagna (UD)
mercatino che si svolge generalmente 2 volte all’anno, in autunno e primavera, è organizzato dall’associazione GAS Furlan e dalla Rete dei GAS della provincia di Udine.
Info: tessclaudia (at) livecom.it
Eleonora Mariotti è attivista del Gruppo Tessile dei GAS e coordinatrice de Il GAS vi cambia di Vignola (MO). Architetta con la passione per le autocostruzioni in terra-paglia e per il tessile biologico rispettosi dei lavoratori e delle lavoratrici. Email: emariotti (at) tiscali.it
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