Di foreste e un piccolo rimboschimento
Questo post è stato covato da mesi, forse un anno (come altre cose che bollono in pentola… direi che Radure.net hai i tempi degli alberi per crescere: lenta ma inesorabile!).
Senza dubbio i recenti incendi in Siberia e in Amazzonia hanno puntato l’obiettivo sui problemi di deforestazione, desertificazione e effetto serra.
I fatti recenti aumentano esponenzialmente i rischi del cambio climatico e sono gravissimi, ma di positivo hanno che sempre più persone stanno prendendo coscienza che un domani in effetti forse non ci sarà, se non cambiamo qualcosa.
Almeno non per le creature che ora vivono sul nostro pianeta secondo i cicli del carbonio e dell’acqua.
Ma lasciamo stare la parte negativa della vicenda, seppur gravissima, perché queste Radure vogliono essere uno spazio per prendere fiato, per mettere insieme piccole pietre preziose. O sassolini, legnetti e conchiglie, come piace a noi.
Cose positive che ancora possiamo trovare se cerchiamo bene e, soprattutto, attivamente.
Il sistema economico e l’agroindustria sono responsabili della deforestazione globale
Non dobbiamo dimenticare che di quel sistema fanno parte anche la nostra alimentazione e i nostri stili di vita.
Lo spiega molto bene Valentina Betti Taglietti in questo articolo: Gli incendi dell’Amazzonia sono nel nostro piatto.
Dunque non possiamo pensare di risolvere il problema senza cambiare la nostra vita e la nostra alimentazione.
Non sono mai stata amante della cooperazione a distanza, ho sempre preferito cercare percorsi etici nel mio contesto locale, ma ora trovo molto importante anche il lavoro delle associazioni che si occupano di riforestazione in tutto il mondo, tant’è che con il nostro marchio di gioielli ecologici abbiamo deciso di destinare un dollaro per ogni acquisto a OneTreePlanted, una di queste ONG.
Aiutare a recuperare le foreste mi sembra un ottimo modo per supportare anche le comunità locali, e questo sia nel Nord che nel Sud del mondo.
Le foreste più estese e intatte si trovano in paesi lontani dal ricco mondo occidentale, che ha fatto piazza pulita delle sue foreste per fare largo allo “sviluppo”.

Su Global Forest Watch, una mappa interattiva per osservare la situazione delle foreste e dell’uso del suolo in giro per il pianeta.
E’ ovvio che la foresta Amazzonica sia indispensabile per qui equilibri del pianeta, ma è un pensiero colonialista pretendere che gli ultimi “polmoni verdi” debbano essere preservati perché noi ci siamo già arricchiti facendo cenere dei nostri, impiantando agricoltura, industrie, infrastrutture, quartieri residenziali e brutte periferie, centri storici, direzionali, commerciali…
Possiamo cambiare i nostri consumi, scegliere un’alimentazione prevalentemente vegetale, supportare produttori biologici e artigianato locale, ma perché non pensiamo anche a piantare alberi dove abitiamo?
One Oak per esempio lo fa in Spagna.
Certo, non sarà l’Amazzonia e il risultato non sarò pari al ruolo delle foreste primarie, ma un albero comunque si nutre di CO2, contribuisce al ciclo dell’acqua, rinfresca, offre riparo a piccoli animali e svolge altre numerose funzioni ecologiche e anche sociali.
Mi ricordo l’estate di due anni fa, era il 2017: in provincia di Bologna non ha piovuto da febbraio a inizio dicembre.
Da FEBBRAIO a DICEMBRE.
Da allora ho iniziato a pensare a quanto fosse indispensabile organizzarci anche qui, nel lato benestante del mondo, alle pendici della pianura Padana (per altro poi, come sappiamo, inquinatissima).
Perché nessuno pensa che dovremmo organizzarci adesso per raccogliere l’acqua e piantare alberi, finché siamo in tempo?
Due anni fa, ad agosto, il bacino artificiale dove andiamo ogni tanto d’estate sembrava essere evaporato, non l’avevamo mai visto così basso, l’acqua era insolitamente calda, melmosa. Sulle montagne interi versanti di querce, quelli sui terreni più poveri e rocciosi, a fine estate erano già con le foglie secche, marroni.
Molti (dei pochi) bacini artificiali dell’Appenino emiliano-romagnolo, nostre riserve d’acqua, sono stati costruiti negli anni Trenta. Penso che politiche lungimiranti dovrebbero trovare il modo di costruirne altri, o favorire la costruzione di raccolte a piccola scala.
Nel 2017-2018 abbiamo vissuto 7 mesi a Gran Canaria e ho scoperto che l’isola, per metà abbastanza verdeggiante mentre per metà quasi desertica, ha il più alto livello di raccolta di acque piovane di tutta Europa, attraverso grandi bacini artificiali e innumerevoli piccole raccolte sui terreni di privati.
E’ stato lì che ho iniziato a sognare che cominciassimo anche qui a raccogliere acqua e a piantare alberi su queste terre dove il clima muta, ma ancora lascia un margine di speranza.
E a molti questo margine lascia il prosciutto sugli occhi (e nel piatto), grazie alle arie condizionate o alle vacanze lontano dal cemento nei mesi più caldi.
Le ultime estati sono state torride ovunque mentre luglio è stato il mese più caldo di sempre, l’abbiamo letto un po’ dappertutto.
Ma sempre per tornare alle cose positive, che fanno bene al cuore, oggi vi voglio raccontare, e mostrare, il nostro piccolo rimboschimento. Nostro, e delle nostre valli.
Le foreste stanno aumentando in questi anni in Europa, ma non basta
Il suolo dell’Europa è tornato per un terzo coperto da alberi (fonte: Internazionale), anche se questo manto vegetale produce meno ossigeno di un tempo, perché si tratta di alberi ancora giovani o conifere (fonte: Focus).
La maestosa foresta europea, che ha resistito fino al Medioevo, era costituita principalmente da latifoglie, anche secolari (soprattutto querce, ma anche frassini, carpini, olmi, faggi dove il clima è più freddo).
E’ un po’ la nostra madre dimenticata, che la Chiesa e la rivoluzione scientifica hanno fatto passare per diabolica e matrigna.
Dopo il Medioevo il pensiero magico ha lasciato il posto al razionalismo e al positivismo, mentre Giordano Bruno e le donne accusate di stregoneria bruciavano, insieme alle nostre foreste.
Forse non erano quelli i secoli bui…
I rimboschimenti e le piantagioni di sempreverdi hanno preso piede perché crescono velocemente e il legno è una risorsa facilmente capitalizzabile, mentre al capitale naturale (per quanto la definizione sia discutibile) stiamo cominciando a pensare adesso.
La crescita dei boschi europei avviene a discapito del suolo agricolo, non certo di quello urbano, a causa dell’abbandono dell’agricoltura, soprattutto nelle zone dove questa è meno redditizia, come in montagna (ne ho scritto anche qui).
Con l’abbandono vengono poi meno la cura del territorio, la pulizia dei boschi e dei corsi d’acqua, con i rischi di frane e smottamenti che in Italia sono ben noti, complici le precipitazioni sempre più violente.

Una storia di rimboschimento
Noi viviamo su colline di calanchi, affascinanti ma aspre, molto difficili per la vegetazione, specie per gli alberi ad alto fusto.
Qui le piante più diffuse sono i cespugli e gli arbusti, come le ginestre, i biancospini, i prugnoli, la rosa canina.
Gli alberi che resistono meglio sono i frassini (ci sarebbero anche gli olmi, ma sono vittima della grafiosi), qualche quercia che cresce a un ritmo millenario e a 50 anni sembra che ne abbia 15, nei punti più favorevoli i carpini, mentre le acacie ormai non ce la fanno più.
Dal fondovalle sta arrivando imperioso l’ailanto, lussureggiante e rapido.
Sembra di vederlo camminare, per quanto cresce in fretta e si diffonde lungo le strade.


Mentre le montagne bianche all’orizzonte sono il Corno alle Scale e il Cimone.
Qui il bosco sta risalendo le colline, man mano che i terreni vengono abbandonati o tornano al pascolo, come quelli di un contadino che ha rimesso le mucche all’aperto, in un recinto di 20 ettari.
Questa era terra di vigne, pecore e capre, che facevano piazza pulita di tutto.
C’è anche una casa che si chiama ancora “Prati del Comune”, e una pastora che conosciamo che da piccola ci portava le pecore, perché erano terre a uso civico.
Molti nostri boschi sono nati dal dopoguerra, quando abbiamo smesso di usare le bombe e la legna. E a volte le bombe per fare la legna – sugli alberi secolari – come ci racconta un nostro anziano amico. Delicatissimo.
Il bosco sta tornando, e anche noi abbiamo fatto la nostra parte, con questa voglia matta di alberi, in una terra dura, argillosa, spesso cotta dal sole e battuta dal vento.
Genesi di un boschetto
Con un terreno di circa duemila metri quadrati a disposizione abbiamo lasciato che crescessero piante spontanee, tagliando sempre il prato un po’ alto e facendo attenzione ai getti (tutte attenzioni di Simone).
Abbiamo aiutato un boschetto vicino a crescere, potando e pulendo un po’ (azioni illegali… che tristezza!).
Abbiamo recuperato gli alberi che si seminavano da soli in giro, nei vasi di fiori o in angoli improbabili per lasciarli crescere.
Gli anni passano, si vede in fretta con i bambini, e lentamente con gli alberi.
Ora si comincia a vedere il nostro futuro boschetto.
Abbiamo sempre un piccolo “vivaio” Olmi Qui c’è un olmo da travasare In mezzo a questa confusione c’è un olmo Tra le fragole, la felce e l’aquilegia c’è un frassino da spostare
Progettiamo di trasferirci lontano, ma la gioia di lasciare un boschetto dietro di noi mi dà un po’ di respiro, in questi tempi neri.
Come il racconto di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, che scalda il cuore, mostrando come spirito umano, alberi e comunità locali siano collegate.
Non vi rovino la sorpresa. Si legge in poche ore ma cambia la prospettiva.
E fa venire voglia di andare in giro a piantare alberi, come se non ci fosse un domani.
Perché infatti, forse, non c’è.
I tempi sono quelli degli alberi chiaramente, ma una assaggio dei risultati lo possiamo vedere e immaginare.
Se osserviamo crescere gli alberi, poi, ci sentiamo anche un po’ meno al centro della situazione, e anche quello fa bene al cuore.
L’altro giorno su un prugno nell’orto – ormai boschetto anche lui – è ripassata l’upupa, che gli innumerevoli gatti del vicino avevano scacciato.
Qui vedete un po’ come sono cambiati i nostri micro-paesaggi in poco più di una decina d’anni.
(I pini sono morti, già nella prima foto non stavano molto bene. Si vede che a queste terre non piacevano i giardini anni Settanta!).


















Il link al libro di Jean Giono è sponsorizzato.
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